L’amore è una bestemmia a voce alta, un’ossessione. Una tregua. Per me, più spesso, una guerra. Sta sveglio la notte, mentre io vorrei dormire. Pacificata e salva. L’amore cerca il dubbio, perché niente più del dubbio alimenta il desiderio. E al mattino si sveglia con certi occhi cerchiati.
E’ come un gatto, è come me, non ha padroni.
Gli amori scaduti, quelli finiti, quelli che non hanno retto il peso del quotidiano.
L’amore felice, l’amore disperato. Le corone di fiori, le corone di spine.
Mi do fuoco al cuore per tenerlo lontano, come si fa con le bestie o con le tenebre.
L’amore che sbaglia i tempi. Lo fa sempre, e poi chiede scusa. Ha l’impazienza della luna. E, come la luna, è incostante.
Tutto si consuma a baci e morsi, in amore. Fino all’alba, quando il cielo ci cade di dosso e ci svela. Ma alla fine di tutto, l’amore è l’unica cosa che conta, anche quando non c’è più. Purché la notte sia stata bella.
Anno che sei finalmente terminato, lo confesso: non ti ho capito. Ma non mi sono capita nemmeno io fino in fondo, quindi mi sa proprio che stavolta siamo pari. Mi hai mandato il cuore in fiamme, con una manata hai scombinato le carte, ma mi hai anche fatto accorgere che alcuni piani erano miei, e miei soltanto. E allora è meglio così, dopo tutto dovrò pure ringraziarti.
Alcune cose mi sono scivolate dalle mani prima ancora che me ne accorgessi. Ho perso treni, speranze, ma soprattutto ho perso la pazienza. E credo proprio che sia un bene. La pazienza è la virtù degli infelici.
Anno che te ne sei andato, ti ho odiato e non mi mancherai. Ti sei preso tutto e mi hai restituito cattiveria. Per colpa tua mi sento svuotata.
Anno maledetto, ci hai provato a farmi diventare più cinica, più arida, più disillusa. E confesso: ci sei quasi riuscito. Ma dovrai fare meglio. Per il momento sono solo più selvatica. Sto imparando a riconoscere i lupi dagli agnelli.
Una cosa però te la chiedo: tieni lontano chi non ha programmi per me, o con me. Chi mi fa perdere tempo e sentimenti. Chi pensa che ci sarà qualcuno che se ne occuperà al posto suo. Chi non mi ha accettata per quello che sono, chi ha voluto fossi diversa. Chi ha provato a rendermi insicura. Chi non rischia. Chi non è capace di guardare avanti ma solo indietro. Chi vive alla giornata. Chi non ama. Chi non ama di più. Non sono come voi. I disonesti, gli ipocriti, gli ingrati. Chi si lamenta, chi crede che la propria sofferenza sia speciale. Siamo tutti sotto allo stesso cielo. Chi ha preteso tempo e attenzioni senza darne indietro. Chi avrebbe voluto che abbassassi la testa. Chi non c’è stato mai quando era l’unica cosa che mi interessava.
Non avevo bisogno di loro ieri, sarà così anche domani. Piangerò ancora un po’, come quando mi capita di lasciare indietro e andare avanti, ma ce la farò anche questa volta. Ringrazio invece chi non ha fatto finta di nulla. L’indifferenza è un pugno in faccia.
Ma tieni lontana anche me, dalle cazzate soprattutto. Ricordami di volermi più bene e adeguarmi di meno. E fammi smettere di amare chi non posso amare più.
Infine avrei anche un altro desiderio: fammi stare un po’ in pace. Che sarà pur vero che si nasce e si muore, ma in mezzo a tutto questo a me tocca vivere e sarebbe bello non farmi troppo disperare.
Grazie.
Succede che un pomeriggio di Dicembre non ho voglia di tornare a casa. Che alle sedici e qualcosa non svolto, proseguo. Succede che poi parcheggio e sdraio lo sguardo all’orizzonte.
Sono un po’ stanca di farmi sbranare. Quest’ultimo anno si è inghiottito tutto. Però qui davanti mi sento bene. E’ come se qualcosa dentro, qualcosa che sta tra il respiro e il cuore, combaci con il resto. Con le dita lunghe, i capelli lunghi, le ciglia lunghe. Con tutti i miei centomila nei, che sembrano una galassia, con le costellazioni, le supernove e tutte le altre stelle, sole o accompagnate. Insomma, sono stata un po’ a riflettere su questo concetto del combaciare, mentre la mia anima combaciava con il corpo, e lo baciava anche. E quasi mi pareva che il mio cuore accartocciato si gonfiasse.
Con grande fatica sto imparando ad amarmi un po’ di più per quello che sono e vorrei che anche gli altri lo facessero. E forse l’errore è proprio quello: amare qualcuno per quello che è. Le persone vogliono essere amate per quello che sembrano. O per quello che credono di essere. La loro versione più coraggiosa, più giusta.
Anche se poi, secondo me, tutta questa storia dell’amare non dovrebbe essere ogni volta una fatica. Non si dovrebbe amare sempre di traverso.
Il tuo naso, l’odore dei tuoi capelli, il tempo che hai sprecato, l’aria che respiri, il cazzo che te ne frega, gli struggimenti che non hai.
La roccia alla quale mi aggrappo per non farmi portare via dalla corrente. Le parole che scrivo sul bugiardino della pillola anticoncezionale. La pace, che ormai dura appena il tempo di qualche minuto, ma a volte è sufficiente per vincere qualche piccola guerra privata. Le valigie, i treni persi. Alcuni grandi amori finiti che mi porto sulle spalle. La mancanza, della quale bisogna avere rispetto. La distanza è necessaria.
Il cuore, il mio un po’ più a nord della pancia, un po’ più a sud degli occhi. Il tuo, tra le orecchie.
I rullini, i vinili vecchi ma nuovi. Gli esperimenti culinari. Le emicranie, la preoccupazione. Gli abbracci. Gli abbracci. Gli abbracci. Che non sono mai abbastanza. La lista dei vecchi film da recuperare. Qualche rossetto per farmi sentire più bella. I capelli bianchi. Decine, centinaia di capelli bianchi. Quel poster introvabile che alla fine ho trovato. Il mascara, anche se non era vero che era waterproof.
Mi hanno detto di non scrivere. A me scrivere fa bene, ho risposto. Sembrerà a te, povera scema, scrivere non placa, acuisce semmai. Ma io sono qui per questo. Voglio fermare tutto su carta, per non dimenticarmi nulla. Che di parlare non ho più voglia, ma di scrivere sì. Anche se poi non lo so più, per chi scrivo. Una volta scrivevo per lui, che non leggeva più. Poi ho scritto per me. Soprattutto per me.
Ho scritto per non perdere capelli, affetti e amori. Ho scritto per ricucire strappi, per elemosinare attenzioni. Per scongiurare una fine, o per celebrarla. Soprattutto per questo. Per ricordare. Per rendere tollerabile un disamore. Perché non so cantare per le radio a transistor, come Gainsbourg, e allora qualcosa dovrò pure inventarmi. Ho scritto perché desideravo una fuga, un figlio. Entrambi o nessuno dei due. Per riempire un silenzio che mi faceva male, per colmare la distanza, per noia. Perché, a volte, scrivere mi impedisce di impazzire. Scrivere mi aiuta a rimanere in piedi, che in ginocchio proprio non ci so stare. Ho scritto per ridere, per piangere. Per far piangere. Per rispondere. Per ferire, per curare. Per chiedere scusa, per dire basta o per non dire più niente. Ho scritto per non sparire, perché mi manchi, ma non voglio dirtelo più. Per guardare avanti, o di lato. Altrove. Ovunque.
Però mi dico, proviamoci. Magari stavolta non scrivo, mi guardo un film. Ma poi succede che, tra primo e secondo tempo, mi viene voglia di piangere. Un po’ come nella vita. Un po’ come nell’amore. E allora forse è meglio che scriva.
Ci siamo annusati, respirati, amati, odiati. Abbiamo lasciato correre. Siamo ritornati sui nostri passi. Anche su quelli falsi. Ci siamo rimessi in viaggio, ci siamo fermati a mangiare, abbiamo riso, ci siamo incazzati, non ci siamo capiti. Ci siamo abbracciati forte, siamo stati sinceri, siamo stati crudeli. Abbiamo fatto paragoni, abbiamo cancellato delusioni. Ci siamo sbagliati. Ci siamo sbagliati. Ci siamo sbagliati. Non ci siamo stati. A volte invece sì. Siamo stati altrove, da soli, e poi siamo ritornati a casa insieme. Siamo stati camere iperbariche e scintille.
Si rimane da soli, anche nel dolore, e si riflette tanto sull’amore nelle ultime settimane. Anche se poi, se si chiamano sentimenti è perché si devono sentire, e non spiegare. L’amore è quello che è. Anzi, quello che si fa. Io imparo dall’assenza. Imparo a farne senza. Ma se c’è una cosa che ho imparato davvero, è che non si recupera più l’amore di cui si è sentita la mancanza. Gli si corre sempre dietro. E io non sono mai stata capace di chiedere, né di correre.
Oggi avevo nostalgia di una certa leggerezza. Così sono uscita a prendere aria e quando sono tornata a casa mi sono messa messa il rossetto. Quello rosso rosso. Perché volevo sentirmi bella. Poi ho scritto una frase sullo specchio del bagno con la matita per gli occhi, per non dimenticarla: ce la farai sempre anche quando non ce la farai più. Fino a quando il cuore non smetterà di bussare al mio costato.
Ho pianto per futili motivi e ho pensato che Agosto non mi è mai piaciuto. E’ un’eterna domenica sera. L’ultimo giorno di vacanza mentre guardi un cielo di cobalto, che non è il tuo, e sai che dovrai lasciarlo.
Agosto si è inghiottito il cuore, dopo averlo masticato per bene. Agosto è un cesto di ortiche e di cattiveria. E’ un groviglio di dolore.
Chi sta cercando una trama ben definita probabilmente rimarrà deluso. 20Th Century Women è un film corale, aneddotico, ma soprattutto femminile. Per questo qualunque uomo dovrebbe spendere un paio d’ore per guardarlo.
Chi è madre, o padre, potrebbe riconoscersi. Ma anche chi è figlio, chi è arrabbiato, incompreso, confuso o insicuro.
Dorothea decide di avere un figlio a quarant’anni e, dopo il divorzio, si ritrova a crescerlo da sola. La vita scorre via liscia nella casa sgangherata dove vive affittando camere ad altre persone, fino a che non arriva l’adolescenza. Jamie ha quindici anni e sua madre inizia a domandarsi se una donna sola sia “abbastanza” per guidarlo in questa nuova fase della sua vita. Così chiede agli altri coinquilini della casa e alla migliore amica di Jamie, di aiutarla.
20th Century Women è una pellicola piena. Ci troverete il punk, le sigarette, i Talking Heads, le polaroid, gli amabili resti del conflitto generazionale, i balli scatenati di Greta Gerwig, il presidente Jimmy Carter, il femminismo e ancora un sacco di sigarette. Tutto questo in uno dei film più belli che abbia visto nell’ultimo anno.
Fuori dall’inquadratura c’ero io, su una spiaggia pasoliniana e poco Adriatica. C’ero io, dentro a un bar affacciato sul mare. Una sedia di plastica, un ombrellone chiuso, una musica senza fedeltà in una sera d’Estate. I prezzi dei gelati scritti a mano e il proprietario che decide cosa devi mangiare.
Fuori dall’inquadratura ci sono anche un ragazzo e una ragazza, innamorati dei loro cellulari.
A volte catturare un’immagine è necessario, anche per chi usa le parole. Mi permette di dimenticare tutto, divento solo un occhio che guarda. Soprattutto quando non ho più voglia di parlare di me, di analizzarmi e di capire. Conosco la geografia del mio corpo a perfezione. Ogni vertebra sbilenca, ogni curva, ogni spigolo. Ogni lentiggine e ogni neo. Ma il cuore, quello no. Rimane un mistero. La fine del fiume.
Meglio osservare quello che succede fuori.
Potrei stare ore interminabili a parlare della via in cui abito. Dei gatti, del vecchio che mi guarda dal balcone mentre fuma, del ragazzino che non saluta mai.
In questo mondo dove si conserva poco e si butta parecchio, e io capisco sempre meno dell’Universo e dei suoi misteri, non si può fare a meno della fotografia.
Così, fortunatamente, anche se sono qui da un po’ ho ancora molta meraviglia e molto amore nello sguardo. E mi dispiace proprio tanto per voi, che ve lo siete persi per strada.
Resto sotto questo cielo femmina che fa un po’ quello che vuole, a guardare le giornate andare in pezzi, anche se poi rimangono intere. E anche se non mi vedo, di sicuro mi immagino con un’espressione di silenziosa ostinazione.
Fuori dall’inquadratura ci sono anche io, che ancora non ho capito qual è il mio posto.